Suicida l'11 febbraio del 1963, poco più che trentenne, la Plath rappresenterà per le femministe, negli anni subito successivi la sua morte, l'identità femminile vittima del sistema patriarcale e maschilista. Il marito Ted Hughes, noto poeta inglese, l'aveva abbandonata per un'altra donna nel 1962, anno in cui la Plath dovette affrontare altre difficili prove: problemi economici, ospedalizzazioni, trasloco, nuovi stili di scrittura. Per molti mesi nasconderà a se stessa e agli altri l'abisso in cui stava sprofondando, recitando il ruolo della donna "normale", "forte" e "indipendente". Due attrici e una danzatrice in scena a raccontare l'io in pezzi che si ricompone attraverso l'atto creativo intriso di gioia, passione, forza e fragilità e dunque, una Sylvia ombrosa e solare capace di proiettarsi nel futuro e dare forma alla sua libertà, fino al momento in cui, l'io stanco, cade per non rialzarsi, non sognare più. Consegna Sylvia i figli alla vita e se stessa, senza dolore, alla morte. La regia, che si è servita di alcune parti di un racconto di Stefania Caracci e di alcune frasi della Plath enucleate da lettere, diari, e poesie, ha utilizzato l'elemento del gioco, lo stesso che la Plath aveva instaurato con la vita, certa che la sua genialità avrebbe prevalso. Attrici e danzatrice sono chiamate a giocare sui sensi e sui ritmi della scrittura. Gli elementi scenografici ricostruiscono la relazione simbolica di Sylvia con il mondo esterno e quello interiore: conflittuale, poetico e lunare.